Flash Forward vs. Lost – 1.01, 1.02, 1.03
La nostra amica e collaboratrice loislane ci ha inviato un interessante contributo sulle prime tre puntate di questo nuovo telefilm che la abc ha lanciato come erede di Lost.
Tra analogie, citazioni e differenze vediamo cosa ne pensa la nostra loislane, a dopo il continua.
WHAT DID YOU SEE?
E’ questa la domanda che i protagonisti di Flashforward si pongono, reciprocamente, a partire dal 29 ottobre 2009, cercando di capire che cosa e soprattutto perché “qualcosa” è successo.
Lo spot di lancio di Flashforward, annunciata come l’erede di Lost, è un’abile strategia di marketing, sfruttata dalla ABC per far colpo su quanti in Lost hanno visto l’evento mediatico più affascinante, intrigante e stimolante di tutti i tempi.
L’eventualità di lasciare gli spettatori senza un’attrazione così particolare e fantasiosa (Lost si concluderà nel 2010), ha spinto i produttori di Flafhforward ad assimilarla a Lost senza che ci siano dei reali richiami alla storia dell’isola più famosa del momento.
Per non deludere quanti riponevano in questo la credibilità della nuova serie, hanno piazzato qua e là delle cose (che chiameremo indizi, ma indizi non sono) che rimandano a Lost. Il logo della Oceanic in una delle prime scene, la particolarità dei numeri (2,17 minuti di “sogno”), la presenza di Dominic Monagan e Sonya Walger nel cast, il nome di alcuni dei personaggi (Charlie, Olivia, Aaron), altro non sono che dei rimandi alla nostra serie preferita, ma non hanno nessun legame con essa.
L’associazione che si può fare è quella dei viaggi nel tempo, della fede e della scienza, del destino e del libero arbitrio.
Ma, del resto, non basta parlare di viaggi nel tempo (più o meno coscienti) e domandarsi se si può cambiare il futuro per dire di aver trovato l’erede di Lost. Anche perché sia nella letteratura che nel cinema ci sono stati sin dai primordi del secolo scorso narrazioni di stampo futuristico che si basavano sul desiderio innato dell’essere umano di conoscere il suo futuro e su quello, assai più ardito, di poterlo gestire. Nulla di nuovo, insomma.
Se poi vogliamo trovare a tutti i costi dei parallelismi con Lost, possiamo partire dal fatto che l’autore del libro (del 1999) cui è ispirata Flashforward si chiama Robert J. Sawyer.
(Il libro narra di un incidente causato dal malfunzionamento dell’LHC del Cern di Ginevra (acceleratore di particelle), che provoca uno stato di incoscienza temporaneo durante il quale si apre una finestra sul futuro di tutti gli abitanti della terra, che da allora in avanti si interrogheranno su come vivere gli anni che li separano dal futuro che hanno visto.)
La domanda basilare è una: conoscere il futuro, può influenzarlo? Sapere come sarà il proprio futuro, cambia il nostro modo di vivere il presente?
La mia risposta è si. Per il semplice motivo che chiunque avrebbe motivo di essere sconvolto dalla certezza di morire nell’arco di sei mesi (alcuni dei protagonisti non hanno visto alcunché), o dalla certezza che la propria vita coniugale subirà un profondo cambiamento; tutto questo porterà inevitabilmente i protagonisti a vivere di conseguenza, con ansie riconducibili a… nulla, in fondo, dacché non si conosce la natura degli stravolgimenti che verranno.
Tra l’altro, le vicende del protagonista Mark Benford (Fiennes) sono altamente pilotate dalle immagini da lui “sognate”: lui ha visto nel suo futuro il “muro del Mosaic”, l’indagine sull’intera faccenda. Ma la cosa buffa è che lo forma tale e quale a quello della “visione” proprio basandosi sulla “visione”, poiché -ad esempio- un nome qualunque come quello del fantomatico bad-guy “D. Gibbons”, che è già diventato il personaggio misterioso della serie, presumibilmente non gli avrebbe “detto nulla”, in condizioni normali. E mai avrebbe pensato, da bravo papà, di buttare nel fuoco il braccialetto che gli regala la figlia (lui si vede con quello al polso, nel suo sogno), se non lo avesse ricondotto all’immagine del futuro.
Al di là dei commenti che si possono fare sui primi tre episodi andati in onda, genericamente parlando questa serie è riconducibile, per certi versi, al filone catastrofico tipico del cinema made in USA, al solo scopo di fornire la magnifica equazione: il futuro dell’umanità è in pericolo = gli americani trovano la soluzione al problema.
Rimango convinta che il blackout non sia di origine metafisica, piuttosto lo attribuisco ad un esperimento filogovernativo finalizzato allo studio del comportamento umano.
Certo… coinvolgere l’intera popolazione mondiale… non sarà un tantino esagerato?
Ma a questo punto non si discosterebbe dalla trama del libro da cui trae origine, e allora non ci sarebbe nulla da scoprire.
La serie promette (o minaccia, per meglio dire) altre 5 stagioni di 22 episodi l’una, il che sin da ora la rende insopportabile per il solo fatto che questo ci dà la certezza che non si farà luce sull’intera vicenda se non dopo estenuanti e arzigogolate supposizioni.
Di certo, dopo “Live togheter, die alone”, “See you in another life” e “I always have a plan”, una nuova frase arrichirà i dialoghi:
WHAT DID YOU SEE?
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